Il rapporto con il proprio corpo rappresenta un argomento particolarmente importante e attuale nella società del nostro tempo. Il corpo, l’immagine che abbiamo di noi e l’immagine che gli altri hanno di noi appaiono come elementi strettamente legati al nostro senso di identità.
Si sente spesso parlare di immagini corporee e disagi dell’identità corporea, ma di cosa si tratta?
Schilder (1950) descrisse le immagini corporee come “Il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire il modo in cui il corpo appare a noi stessi (…)”. Le immagini del corpo includono soprattutto aspetti emotivi, cognitivi e affettivi e hanno un legame particolare con se stessi, gli altri significativi e la propria storia personale.
I disagi dell’identità corporea hanno a che fare invece con l’insoddisfazione per il peso o per le forme del corpo; tali disagi sono accomunati dalla tendenza a creare un legame tra il proprio corpo e la stima di sé nel senso di far dipendere la stima di sé dal corpo.
«Ma come nascono quelli che vengono definiti disagi dell’identità corporea?»
«Come si arriva a pensare che il proprio corpo sia sbagliato?»
«E come si può continuare a pensarlo anche quando tutti gli altri dicono il contrario?»
In questi casi il fulcro del problema è da individuare proprio nell’immagine corporea che la persona ha di se stessa, in quelle immagini di sé attraverso le quali la persona valuta se stessa. Il proprio senso d’identità e il proprio valore in questo caso sono in crisi.
Tra le più comuni forme di disagio legate al proprio corpo troviamo l’anoressia e la bulimia.
Il DSM V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) ci fornisce una serie di caratteristiche descrittive per facilitare il riconoscimento dell’anoressia:
- restrizione dell’assunzione di calorie in relazione alle necessità, che induce a un peso corporeo significativamente basso relativamente all’età, al sesso, all’evoluzione di sviluppo e salute fisica. Il peso corporeo significativamente basso è definito come un peso inferiore al minimo normale o, per i bambini e gli adolescenti, minore di quello minimo previsto;
- intensa paura di aumentare di peso o d’ingrassare, o comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso, anche se significativamente basso;
- alterazione del modo in cui viene vissuto dall’individuo il peso e la forma del proprio corpo; eccessiva influenza del peso o della forma del corpo sui livelli di autostima, o persistente mancanza della capacità di riconoscimento della gravità dell’attuale condizione di sottopeso.
Altre caratteristiche spesso riportate da chi soffre di anoressia sono: sentimenti di inadeguatezza, perfezionismo, umore depresso, insonnia, diminuito interesse sessuale, ritiro sociale, irritabilità, ridotta spontaneità nei rapporti interpersonali, bisogno di tenere sotto controllo l’ambiente circostante, rigidità mentale, espressività emotiva repressa, ossessioni e compulsioni incentrate sul cibo, disagio nel mangiare in pubblico.
Quando parliamo di anoressia nervosa distinguiamo due tipologie:
- anoressia nervosa di tipo restrittivo in cui la persona non presenta frequenti episodi di abbuffate o comportamenti purgativi quali ad esempio vomito autoindotto, uso-abuso improprio di lassativi, diuretici o clisteri;
- anoressia nervosa di tipo bulimico in cui la persona presenta frequenti episodi di abbuffate o comportamenti purgativi.
Tali indicazioni guidano psicologi, psicoterapeuti e psichiatri in un primo momento nell’individuazione della presenza o meno del problema e in un secondo momento nella scelta del percorso da intraprendere per far fronte alla situazione. Tutto ciò però spesso porta lo specialista ad assumere uno sguardo unidirezionale: la persona è malata e deve essere curata secondo precise linee di intervento. L’etichettamento “anoressica”, offusca le altre parti della persona che dal momento della diagnosi in poi è riconosciuta quasi esclusivamente nel suo ruolo di persona “malata”. Certamente non si può prescindere dagli indicatori legati al funzionamento fisico o dal comportamento agito ma non dimentichiamo che un quadro sintomatologico e la scelta delle linee di intervento non possono prescindere dal vissuto del singolo, dalla sua storia personale, dai significati che attribuisce a ciò che lo circonda e alle sue esperienze di vita quotidiana, dal contesto in cui vive, dalle sue relazioni e così via.
Sulla scia di quanto messo in luce nella parte conclusiva, si consiglia di rivolgersi a psicologi o psicoterapeuti che si occupano di disturbi del comportamento alimentare.
Non dimentichiamoci di allargare il nostro sguardo alla totalità della persona, alla sua unicità.